Roma Italia Lab – aprile 2017
Corale mnemonico – fra infanzia e prima gioventù
Ricordi, visioni sonore e memorie caotiche e sparse del pittore e musicista Ak2deru
…qualcosa del genere: «ta-tutu-tata-tu-tata-ta-tutu-ta-tu … (ripeti) ta-tutu-ta-tutu-tata-ta-tutu-ta-tu… (no, ascolta e rifallo) … ta-tutu-tata-tu-tata-ta-tutu-ta-tu ! … (beh, per farla breve, alla fine lo imparai!)». Era mio padre che da bambino mi insegnava un ritmo, battuto con le mani sul tavolo della cucina di casa.
Tra i miei primi giocattoli, fra quelli più amati – oltre a matite, pennarelli e colori vari, coi quali trascorrevo interi pomeriggi in beata solitudine – ho avuto diversi strumenti musicali: ricordo, in primis, tre batterie (nel corso della mia infanzia), di cui la prima un gioiellino in miniatura, all’età di due anni… tutte rigorosamente disintegrate dal mio evidentemente prematuro e innato fervore sperimentale, in cui, ad esempio, squartavo le pelli provando colpi di percussione non convenzionali, percuotendo violentemente e con le punte delle bacchette quel povero tamburo, martirizzandolo… e inoltre una mini chitarra elettrica, con la quale veramente mi scatenavo (e ho di recente rivisto un filmino del mio terzo compleanno che lo documenta).
A dodici anni ebbi una delle folgorazioni musicali più importanti della mia vita: mi schiantai su quel muro di malinconia struggente e soverchiante che è Yesterday, dei Beatles, venendone totalmente sopraffatto. Registrai un’intera audio cassetta da 90’, con solamente quella canzone ripetuta per l’intera durata di ogni lato… e passavo ore ed ore ad ascoltarla, girando e rigirando manualmente i lati del supporto (lo stereo sul quale la sentivo neanche aveva l’auto-reverse!), sino a consumarlo. Le tendenze ossessivo-compulsive sono da sempre una costante della mia vita…
Le mie prime lezioni di chitarra furono dal barbiere del paese, oltre che chitarrista, mandolinista anch’egli come “Minnanna”, amatissima nonna paterna. Studiavo su una chitarra classica che pochi anni dopo mi avrebbe accompagnato, sedicenne, nel mio primo viaggio coi treni Interrail per le capitali europee, col mio cugino-fraterno. Conservo tutt’oggi questo strumento, semi distrutto, come un vero cimelio.
Poco dopo, finalmente arrivò la mia prima vera chitarra elettrica, nera, accoppiata ad un piccolo amplificatore che stremai al limite, amando farlo fischiare continuamente, coi feedback, a causa dell’eccessivo volume. In fondo ho sempre amato la musica ad alto e ad altissimo volume, insieme a tutto ciò che è sussurrato, alle soglie del percepibile.
A quattordici anni ero già follemente, perdutamente e irrimediabilmente innamorato dell’arte, e cominciavo a cimentarmi nella creazione delle mie proprie opere, sia pittoriche che musicali.
Sedicenne – benché estremamente confuso su tutti gli altri fronti – avevo già le idee molto chiare sul fatto di voler vivere la vita immerso in queste due dimensioni: la musica e l’arte.
Un luogo certamente mitico della mia infanzia e adolescenza, è stata sicuramente la vigna di mio nonno materno, al quale fui – e sono tutt’ora e per sempre – profondamente legato. In questo angolo di paradiso che è la campagna gallurese, ai piedi del monte Limbara, lì ho radicati fra i più bei ricordi della mia vita, sin dalla più tenera età.
Il casolare di questa vigna è stato teatro di innumerevoli suonate, improvvisazioni e prove di vari gruppi musicali. Ci riunivamo, nelle varie formazioni, in tutte le stagioni dell’anno.
Oltre alle splendide serate primaverili, con la loro luce aurea, ricordo i pomeriggi e le buie e fredde sere d’inverno (fredde davvero… chi lo conosce sa quanto può essere gelido il vento invernale tempiese!) trascorse a suonare con gli amici, in interminabili improvvisazioni fiume… che meraviglia… o quantomeno “meravigliose” nei ricordi più o meno distorti. In quegli anni, durante questi nostri raduni sonori, “suonavo” (fra virgolette perché “suonare” è “una parola grossa”) un po’ di tutto: dalle percussioni – e in particolare i “timpani” della batteria (floor tom) – alla chitarra elettrica brutalmente e appositamente scordata, con accordature “slabbrate” e microtonali, con le corde molto poco tese, che producevano tramite un grosso amplificatore FBT per basso elettrico (al quale però noi attaccavamo praticamente di tutto) una interessante sonorità, distorta e selvaggia… al punto che cambiai nome alla mia chitarra, denominandola “chitarra malesiana”, a sottolineare la distanza dal classico concetto occidentale di questo strumento.
Fra le session più belle ricordo quelle coi superstiti della formazione del mio primo gruppo musicale e le sue successive evoluzioni, in cui già era evidente una prematura attrazione al dualismo gnostico – sul quale, in quel periodo, mi documentavo avidamente… e in particolare quelle con mio “fratellino”, all’epoca davvero giovanissimo, in duo, lui alla batteria ed io o alla mia “malaysian guitar” o alle corde vocali, in cui, al buio, improvvisavamo in modo molto, molto radicale.
In questa vigna, ovviamente, facevamo anche molti spuntini e feste, alcune delle quali decisamente parecchio impegnative! … ma questo meriterebbe un capitolo a parte!
A questo punto, mi rendo conto che in questo involontario “quadretto di famiglia” che si sta delineando, non posso non includere la mamma, dalla quale deriva la mia passione per i libri e la letteratura, e la mia sorellina, di qualche anno più piccola, con la quale condivido il karma impegnativo dell’amore per l’arte!
Un altro spazio speciale è stato lo studio di registrazione che all’epoca aveva mio padre, in cui, per anni sono avvenuti numerosi incontri di artisti e musicisti locali. Inoltre qui ebbi l’occasione di familiarizzare direttamente con le tecniche di ripresa del suono e, in particolare, con quelle di sovraincisione che in seguito tanto influenzarono la mia estetica sia artistica che musicale. Fu qui che, storpiando il nome di una band americana che adoravamo, con un gruppo di amici (fra i diciotto e i venti anni circa) creammo i “Nani Cinesi”. In pratica si trattava di una sorta di gruppo “musico_auto_terapeuta e pseudo_psico_terapico” che, pur non raggiungendo mai gli auspicati risultati in termini di guarigione psichica, sviluppò una profonda consapevolezza del valore del suono e del canto come esperienza d’introspezione profonda e di connessione fra le menti di più persone, attraverso il potente, magico canale dell’improvvisazione collettiva musicale.
Ci riunivamo, la sera o la notte, seduti in cerchio, al buio, e ci lanciavamo in interminabili improvvisazioni vocali, totalmente libere, utilizzando esclusivamente «la voce come strumento» (D. Stratos), con l’unica regola di non utilizzare nessuna parola reale, in nessuna lingua… in pratica, dopo un po’, si aprivano i cancelli e fuoriuscivano le bestie (!), e alle volte si scendeva in zone veramente profonde, allucinate e anche terrifiche…
Per rendere meglio l’idea dico solo che ci fu pure uno svenimento, con relativo tonfo improvviso sul pavimento di uno dei partecipanti, che perse i sensi a causa dell’iperventilazione generata dalla sua performance vocale. Ovviamente, i risultati in termini ‘musicali’ non erano affatto il nostro obiettivo, e da quel punto di vista immagino che il tutto risultasse più o meno inascoltabile.
In questo giro random di memorie più o meno caotiche e sparse, non posso non scrivere almeno un accenno a quella che considero a tutti gli effetti come la mia personale “vocazione” alla composizione musicale: da poco maggiorenne, in uno dei periodi in assoluto più confusi e incasinati della mia vita, in fase di pre-sonno, quando le onde alfa del cervello innalzano enormemente il nostro livello di ordinaria ricettività, mi ritrovai a vivere delle esperienze di “visioni sonore”. In pratica, in diverse occasioni, nell’arco di pochi giorni, la notte mi ritrovai a sentire, in forma di vera e propria “allucinazione sonora”, esattamente come se i suoni fossero realmente nella stanza, circondandomi, delle musiche mai sentite, e in assoluto fra le musiche più interessanti, nuove ed esaltanti che avessi mai ascoltato.
Una volta terminate, mi alzai subito per trascriverle in qualche modo, così come mi capitava di fare, a volte, con i pensieri… e fu in quel momento che realizzai di non avere nessuno strumento, nessun codice per tradurre e annotare ciò che avevo appena sentito. Così decisi che avrei studiato composizione musicale, per poter trascrivere tutti i suoni concepibili. Successivamente dedicai oltre dieci anni della mia vita allo studio per questo progetto, al quale tutt’oggi – quasi un quarto di secolo dopo – sto ancora lavorando.
E visto che fra pochi giorni si celebra il rito pasquale, vorrei concludere questo breve corale di memorie nel ricordo delle celebrazioni della Settimana Santa – specialmente del Venerdì Santo – alle quali assistevo, bambino, nella mia cittadina natale, “la Città di Pietra”, Tempio Pausania.
Due cortei in processione, con i simulacri del bellissimo Cristo ligneo e dell’Addolorata, portati a spalla dai fedeli, attraversavano le vie del paese, in successione, per poi incontrarsi, in un crescendo di emozione, al centro della piazza principale, immersi nell’intonazione di canti sacri, profondi e dolorosi: Miserere, Stabat Mater ed altre composizioni rituali. Successivamente si giungeva alla granitica, splendida cattedrale di San Pietro, e lì avveniva il rito della deposizione dalla croce. Liberata dai chiodi e dalla corona di spine, dopo essere stata adagiata su una lettiga, la statua veniva condotta nella piccola chiesa adiacente, di Santa Croce, per essere nei giorni a seguire omaggiata dalle visite dei fedeli.
Avere assistito, in tenera età, a queste cerimonie credo abbia segnato profondamente, oltre che vari aspetti della mia vita, anche il mio modo di pensare e sentire la musica e l’arte.